La scelta dell’archetipo per la costruzione del brand: breve storia
Solo in anni recenti il cosiddetto Branding Archetipico è stato sdoganato presso i cultori del marketing tradizionale. A determinare l’apertura, un contributo determinante è arrivato da Philip Kotler in persona che, diversi anni fa fa aveva dato alle stampe: “Marketing 3.0, dal prodotto al cliente all’anima”, seguito poi da “Marketing 4.0”, con una parte dedicata proprio agli archetipi e al customer journey, anche in ottica B2B (nel caso di Kotler gli archetipi erano 4+1 ed erano definiti come "archetipi di settore"). In realtà molto si stava muovendo, sin dagli anni Settanta e Ottanta, basti citare il lavoro di Carol Pearson che, dopo aver analizzato il “viaggio dell’eroe” nella crescita individuale, lo fa in chiave di costruzione del brand con “The hero and the outlaw: building extraordinary brands through the power of archetypes” (2001). Sempre del 2001 "Emotional Branding: the new paradigm for connecting brands to people" di Marc Gobé.
Su cosa si basa la costruzione archetipica dei brand? Sul fatto che ci sono narrazioni universali, che possiamo classificare in base agli archetipi junghiani, che sono tipicamente umane e “risuonano” in tutte le persone.
Gli archetipi - per darne una definizione utile e comprensibile anche a chi non si occupa di psicologia - sono modelli profondi, connaturati alla psiche umana, che rimangono validi, con il loro potere, per tutta la vita. Ci sono molti, moltissimi archetipi ma è possibile ridurre a una dozzina il numero di quelli che hanno la maggiore influenza sulle persone.